Il mondo di Donna Concetta

Mostra fotografica personale di

Giuseppe Benito Caruso

 

COME  NASCE  QUESTA  MOSTRA

Le immagini che vedete sono state scattate nei primi anni settanta, in occasione dei lavori di vendemmia nel vigneto di San Gregorio, tuttora di proprietà dell’Ospedale Garibaldi, eredità Recupero, quando, giovane funzionario dell’Ospedale, sovrintendevo ai lavori, quale rappresentante della proprietà, in collaborazione con la  vedova  del mezzadro, Donna Concetta  appunto.

Allora, socio del Cine Foto Club Etna di Catania, ripresi tali immagini con pellicola ILFORD per il bianco-nero e Kodachrome per le diacolor e . . . le posi in un cassetto, dove sono rimaste per oltre quarant’anni.

Cessati gli impegni professionali,  nel mio “buen retiro” di  Pedara, dove mi sono trasferito da Catania, ho ritrovato le immagini, le ho visionate con alcuni amici del Gruppo Fotografico LE GRU, i quali mi hanno suggerito a stamparle e a proporle, se pur datate, per una mostra. Eccola. Sono ventisei immagini, di cui undici a colori. Buona  visione.

                                                                   Giuseppe  B.  Caruso

 

“Il mondo di Donna Concetta” è una singolare sequenza fotografica laddove l’autore, il fotoamatore Giuseppe B. Caruso, raccoglie la memoria di un momento storico ben preciso, da lui intravisto e sperimentato ben quarant’anni addietro, e qui vissuto come documento e narrazione di un’esperienza incentrata sull’incontro e sulla scoperta fotografica.

Ma andiamo per ordine: l’autore, allora giovane funzionario dell’Ospedale Garibaldi, sovrintendeva ai compiti di amministrazione di un vasto vigneto in San Gregorio, di proprietà dell’ospedale appunto, condotto in mezzadria dall’anziana vedova del ” massaro” Don Concetto Trovato, Donna Concetta appunto, e lì  ebbe modo di fermare immagini e momenti di un mondo che si avviava a scomparire,  raccogliendo le ultime ombre come le ultime luci di quel mondo.  E adesso, recuperando quegli antichi scatti e quei custoditi istanti, ce li propone come retaggio di una memoria che gli rammenta un passato di lavoro in una casa colonica,un palmento,una cantina,una masseria, dove non ci fu soltanto burocrazia ma incontro umano e confronto esistenziale.

Le antiche immagini rivelano, ancora oggi, l’acquisita capacità di scandire il racconto visivo con fotogrammi capaci di sintetizzare il senso dell’abitare, del conversare, dello scambiare sorrisi e fatica; significativi in tal senso gli istanti in cui l’obiettivo indugia sui particolari domestici o sugli elementi di arredamento che, apparentemente, non dicono nulla dell’esistenza di Donna Concetta ma che, invece, rimandano con discrezione al suo essere donna, madre, lavoratrice; al suo vivere la domesticità tra il lavoro e la cura della persona e della casa, laddove il senso della memoria e del rispetto per ogni oggetto è sovrano. E badate bene: non c’è, nel nostro autore, lo sguardo compiacente ed elegiaco per il tempo passato, meno che mai l’ostentazione neorealista; la sequenza, infatti, ci consegna strumenti e arnesi sui cui la fatica e il sudore hanno lasciato le loro evidenti tracce, ci consegna abiti e scarponi sui quali la storia non ha altro da aggiungere, ci consegna momenti di modesto ristoro (due acciughe e un tozzo di pane) sul quale versare un sorriso ancora. Questo è il mondo di Donna Concetta? A me, sinceramente, pare il suo regno, le cui immagini,dotate di vaste campiture, sono illuminate da aperture di sole e da quinte compositive; gli oggetti, umili e impreziositi dal suo sguardo, qui contemplati e rimirati, sembrano ricordarci le luci metafisiche di Morandi; le mani, invece, e le mani soltanto, sempre loro, ci ricordano che tutto questo è stato, e talvolta drammaticamente.

 Ci soffermiamo, ancora e piuttosto, sulle immagini sacre, presenti un po’ ovunque, perché ci danno, forse, la misura della laica religiosità di cui è imbevuta tutta la sequenza ovvero quel desiderio di legare, nel ricordo e nella memoria, un’esperienza, un incontro, un’agnizione che il gesto fotografico ha saputo conservare per comunicarlo e condividerlo, a una futura memoria che oggi, fuori dal buio di un cassetto, rivede una nuova luce.

Oltre alla mostra, l’autore ha anche preparato un audiovisivo, per il quale egli ha  cercato e trovato un tema musicale, anzi lo ha personalmente composto e costruito, così come ha composto e costruito l’ordine dell’affabulazione visiva: un pedale armonico, infatti ,dà l’incipit del racconto visivo,quasi l’apertura di un adagio barocco dal quale fare emergere una melodia lasciata inizialmente al timbro dell’oboe. Le note hanno colori acuti come la cerniera di un uscio o come il dondolio di un fuso, mentre si fa strada, nel dolce contrasto del bianconero, la melodia pizzicata su una corda di chitarra che prova a variare il senso di un’atmosfera descrittiva riconducendolo ad un tono più narrativo e confidenziale, disponendo con il suo “ad agio” i reperti della sua memoria secondo pause e atmosfere che obbediscono agli occhi, alla mente, al cuore.

L’audiovisivo invero, è costruito con sagacia: le dissolvenze hanno il giusto tempo dell’umano respiro e lo battono sulle intermittenze del nostro cuore. L’autore accorda fiducia al sentimento della memoria e altrettanta fiducia concede al sereno confronto con l’esperienza dei giorni passati.

Raccomando alla vostra attenzione il primo e l’ultimo fotogramma, quanto mai opportuni nel discorso visivo oggi presentato.

 

                                                                                  Pippo  Pappalardo

                                                                       critico  fotografico  e  docente  FIAF