BORGO ANTICO

MOSTRA FOTOGRAFICA

di Santo Mongioì

Recensione di Pippo Pappalardo

….. trovarono Maria e Giuseppe e il Bambino giacente nella mangiatoia. Con Luigi Santucci ci piace ripetere che qui è tutto. Questo presepio di dieci parole è dell’evangelista Luca che non lo vide mai, così come non lo vide il suo maestro Paolo di Tarso. Lo videro soltanto quei pastori notturni scomparsi nel nulla. Tre nomi ed un arnese. Tutto qui il segno evangelico? Si … e non tanto. Prima c’è stata l’attesa, anche la nostra. E prima, c’è stata la ricerca di una accoglienza, anche la nostra… …E il Presepe – presso la siepe, una stalla quindi – è divenuto l’icona del Natale. Un’icona intrisa dai segni della natura, dai suoni della nascita, dall’idea povera di un cibo essenziale e di un necessario riposo. Così la raccolse in immagine il Poverello d’Assisi, intuendo, forse, nella dimensione teatrale non solo la possibilità di immergersi nell’evento ma anche di viverlo in quella circolarità che il tempo sacro possiede e dove non si fa ricordo ma memoria…“L’Antico Borgo” che Santo Mongioì ha fotografato in S. Maria La Stella è un altro presepe ancora. Un presepe vivente come tanti nella Sicilia, vedi Cianciana, come altri nel continente, Revine nel Veneto o Rivisindoli in Abruzzo. Perché un presepe vivente, ci chiediamo? Perché un tempo in cui vivere nel Presepe? Se abbiamo esperienza di che cosa sia allestire il presepe allora abbiamo il ricordo di sere d’inverno, di scatoloni d’aprire, di terrecotte da liberare dalla carta che le avvolgevano. Ogni gesto si caricava di trepidante emozione. Era come rivedersi dopo un anno, rimembrare un odore antico. Era, anche, il desiderio di una nuova forma da inventare quasi che l’allestimento non fosse per noi, ma per gli altri, anzi per lo stupore che avremmo letto nei loro occhi. C’era, nella preparazione, una sorta d’esercizio corporale e spirituale, da compiere riflettendo, meditando, pregando. Insomma era un dono come quella “pace agli uomini che Egli ama”. E così il presepio vivente, ovvero la ricostruzione viva e partecipata, è vissuto nell’attesa di un Bimbo, “un bimbo diverso che s’incarnerà in mille vite, sospendendole fra la terra ed il cielo, e proprio la più bella, quella del suo Essere, appenderà su una croce, affinché in essa tutte le altre possano avere compimento”. Vivere nel Presepe, farlo vivere, significa, infatti, dar vita ad un’idea di comunità, di convivenza, di un mondo condivisibile perchè percepibile. Proprio per questo si sceglie un tempo che abbiamo vissuto, un tempo passato, conosciuto perché sperimentato, un tempo che ci fa uscire dal ricordo e ci spinge a conservare la memoria: “Fate questo in memoria di me”.Al servizio di quest’ esperienza, di questo tempo che ritorna, del passato che ciclicamente riaffiora, si è messo Santo Mongioì, fotografando – raccogliendo l’immagine quindi – l’evento ed il suo significato. Dalla necessità di lasciare una traccia, un documento del lavoro di tanti e della loro passione e dedizione, è passato, piano piano, quasi inconsapevolmente, alla narrazione. Due registri espositivi quanto mai opportuni per riprendere l’ottimo lavoro della comunità. Strumentali a tale risultato sono stati l’atteggiamento di rispetto, l’assoluta mancanza d’invadenza o prevaricazione, il non ricorso ad effetti o compiacimenti fotografici, l’essersi messo con discrezione al servizio del risultato da raggiungere. Per ottenere ciò ha preferito insistere sui ritratti, ricorrere alle figure ambientate, raccogliere il dettaglio. La tecnica fotografica, espressa con consapevolezza e perizia, gli ha permesso di creare i giusti contrappunti visivi, curare le prospettive sceniche, sottolineare i preziosismi della messa in opera, accentuare il realismo quotidiano dove questo stentava a manifestarsi. Un’opera di regia visiva, potremmo dire, da fotografo di scena, di quando occorre verificare che cosa sarà la visione futura per chi è stato fuori dall’allestimento e non può riconoscerne immediatamente l’intima poesia. Guardate, allora, attentamente i singoli fotogrammi e pensate alla collaborazione che è stata necessaria per realizzare tanto lavoro, e pensate pure alla collaborazione ed alla fiducia che il nostro fotografo ha saputo ottenere dai suoi interpreti. Ma pensate pure che, forse, anche il suo fotografare è stata un’attività del presepe. Se fotografare è, infatti, riconoscere, chiamare le cose per nome, far loro una carezza, restituirle alla nuova visione ed evocarle, ebbene Santo è/è stato un “pastorello” di questo presepe. Io l’ho trovato, naturalmente a Napoli, a San Gregorio Armeno, in una “statuina fotografo”. Santo ha trovato, invece, tra i mestieri e gli artigiani, le case ed laboratori, la sua camera oscura? La cerchiamo noi per lui? Magari cominciando da queste immagini.