VEDUTE E VISIONI

MOSTRA FOTOGRAFICA

di Walter Gaberthuel di Roma

Recensione di Pippo Pappalardo

Spesso, la mia insegnante di cinematografia mi sottoponeva alla lettura di un’immagine e m’invitava a leggere tutta la composizione che stava racchiusa nel quadruccio: leggere la storia che vi era raccontata, le persone citate, le cose e le fantasie che stavano lì incorniciate. Infine, come se non bastasse, pretendeva che le rivelassi immediatamente l’impressione ricevuta, d’adesione o di disagio che fosse.
“Come posso fare tutto questo e così rapidamente?” le chiedevo
E lei “Ce li hai questi benedetti occhi? Ed allora segui tutto ciò che trovi finché non vedrai e sentirai, misteriosamente e da qualche parte, la presenza di qualcuno o qualcosa che viene incontro al tuo sguardo”.
Negli anni non sempre ho rispettato questa regola, anzi, assai spesso l’ho ignorata.
Troppe volte mi sono rifugiato nel giudizio accademico, nell’intuito; però lei, la regola, torna a volte inaspettatamente e m’invita in girotondi visivi, facendo danzare i miei occhi fino a quando anche le orecchie avvertono le note della danza.
Così accade con le immagini di Walter, da me conosciuto tanti anni fa in quel santuario della fotografia che è il paesino di Scanno, in Abruzzo (e rivisto in Acireale, sempre appassionato e, posso dirlo, sempre più italiano e sempre meno svizzero).
Provate anche voi. Prendete la fotografia di un paesaggio, uno dei tanti che Walter reinventa dopo averli trovati con cura e ripresi con affetto.
Cominciate ad annotare come dispone sui vari piani gli elementi della composizione, quasi una sorta di squadratura del fotogramma e predisposizione geometrica all’ordine.
Annotate poi con quanta parsimonia (ma altrettanta raffinata disponibilità) utilizza i grigi, gestendoli ed orchestrandoli per la visione finale.
Seguite, ancora,  la costruzione di questa  visione raccogliendone le sfumature perché proprio lì, sulla linea invisibile del  confine cromatico, ha piazzato la nota emotiva.
Infine, se avete esaurito la ricognizione degli elementi compositivi, accingetevi a  rintracciare quelli espressivi (meglio se lo fate contemporaneamente) e, quindi, ripercorrete il senso della sua proposta che vi risulterà assai lontana dalla documentazione e, piuttosto, assai propensa a nascondersi dietro un registro stilistico (insistente l’uso dell’infrarosso) oppure dietro il volto della natura o del tempo.
Se avrete fatto questo viaggio nell’attimo di Gaberthuel, sarete entrati silenziosamente e senza fatica tra le “vedute e le visioni” del nostro amico e sarete in contatto con quel qualcosa o qualcuno che vi viene incontro, e di cui cennavamo sopra. E sarà, di volta in volta un’idea artistica, un simbolo, un contrasto, un’illuminazione, una rivelazione, una preghiera, un sentiero, una storia, un fantasma, una magia, un’attesa, una stazione, una stagione e “la presente, e viva, e il suon di lei”. Si, come in Leopardi, tra questi quadrucci, sarà dolce naufragare.
In quest’attitudine e capacità di trasformare la veduta in visione, e, quindi da un dato materiale far fiorire un elemento  poetico, certamente spirituale, sta il sentimento visivo del Nostro.
Il suo risultato fotografico, come in certe pitture giapponesi, non si presta alla ricognizione di quell’albero, di quella nuvola, di quel profilo collinare o di quel silenzio. Ogni fotografia di Walter vuole, di queste cose, restituirci l’atmosfera e, quindi, raggiungere l’idea dell’albero, della nuvola, del sentiero.
Si obbietterà che l’uomo e la donna  non vivono  solo nell’atmosfera e nell’idea delle cose quanto, e piuttosto, nella storia che è fatta di vicende ed accadimenti.
Ed allora, dico io, vi siete persi qualcosa. Tornate a guardare e vi accorgerete che il campo è coltivato, l’ulivo curato, la vigna pulita, il frumento maturo, il fieno raccolto. L’uomo, con i suoi giorni, c’è e ci sta tutto. Ci sono i suoi lavori, il frutto della sua fatica, ci sono perfino i suoi simboli, ma……. bè, avete ragione anche voi, perchè le case sembrano vuote, fantasmatiche, nessun filo di fumo, troppo silenzio.
Ed allora, consentitemelo, io ritorno alla regoletta e divento più attento, e aspetto finché qualcosa non viene in soccorso. Forse  è l’anelito di una domanda quello che mi giunge, una provocazione, un invito a capire di più?
Non so per voi, ma per me sta tutto qui la bellezza della fotografia: domandare e rispondere, cercare e trovare nella realtà immagini esplicative dei nostri bisogni.
Esaurito l’esame del referente, quindi, in questa mostra abbiamo avuto bisogno di altro ancora per avere ragione dei risultati fotografici del nostro svizzerotto: abbiamo dovuto ricorrere a domande del tipo “perché fai questo”, oppure “che senso ha questa fotografia”. Ed abbiamo dovuto convenire che abbandonando la veduta materiale ci si è rivelata la visione.
Concludiamo con una domanda: forse perchè l’infrarosso intercetta il calore delle cose è così tanto amato dall’amico Walter?
Ma, se la poniamo in metafora, non è il calore ciò che cerchiamo.