Dallo scatto singolo al portfolio: il linguaggio della fotografia

DALLO SCATTO SINGOLO AL PORTFOLIO: IL LINGUAGGIO DELLA FOTOGRAFIA

L’etimologia del termine “fotografia” è sufficientemente chiara per comprenderne, almeno in superficie, il significato letterale. Scrivere con la luce è la formula di questa alchimia artistica che, nata nell’800, ha riempito di sé il mondo e il suo orizzonte del conoscere. Come ogni forma di scrittura, anche la fotografia, presuppone un linguaggio proprio, che, nel caso specifico, è composto da contorni e non da concetti. Non a caso i semiologi, prendendo a prestito la tassonomia peirceiana, hanno sempre parlato della fotografia come di un indice (traccia fisica di un qualcosa) e non di un simbolo (segno arbitrario assunto per convenzione, più vicino alla parola). Come si possa modulare un linguaggio indicale, fatto cioè di contorni, a tal punto da fargli esprimere dei concetti, è un procedimento che ha interessato ed entusiasmato gli studiosi.
Fra i tanti Roland Barthes, propagandando una lettura finta-ingenua della fotografia, ha voluto considerarla un analogon del reale: atto di testimonianza dell’è stato delle cose . Qualcun altro, Philippe Dubois in testa, ha obiettato che, se la fotografia indica un è stato, il suo statuto non presuppone comunque un vuol dire .
Come fa, allora, una forma d’espressione fortemente connessa con il significante ad esprimere un significato? Se il vuol dire della fotografia non staturisce direttamente dal suo è stato come possiamo compiere il salto dalla denotazione alla connotazione? Su queste apparentemente difficili domande ci si potrebbe arrovellare non poco. Se non che, ritirando in ballo Peirce, possiamo ribadire il funzionamento dell’immagine fotografica come un indice, ma dobbiamo altresì tener conto della sua estrema somiglianza ad un’altra categoria di segni: l’icona.
Per molti fotografi è stato difficile staccarsi – lo testimoniano decenni di pittorialismo – dalla logica del quadro per abbracciare quella della traccia indicale. Tale processo, invece, ha coinvolto più direttamente il pubblico dei fruitori o degli utenti medi del mezzo fotografico, che sono stati, e purtroppo alcuni lo sono tutt’ora, afflitti da una perniciosa malattia: il realismo ingenuo.
A quanti di noi è successo di baciare una fotografia, con la sensazione di baciare, attraverso di essa, la persona raffigurata? Saranno pochissimi coloro i quali potranno dirsi esenti da tale deviazione dal buon senso. E pure è così. Siamo talmente coinvolti dalla referenzialità del prodotto delle figlie dalle camera oscura, che difficilmente pensiamo ad esso come ad un linguaggio.
Il concetto di linguaggio che generalmente condividiamo è quello verbale. Fatto di parole-simbolo che permettono l’infinita articolazione dei concetti, il nostro mezzo di comunicazione primaria ci sembra fondamentalmente diverso dalla trasposizione fisica della realtà. Ma siamo sicuri che tutto si muova su questo livello elementare di gestione dei rapporti comunicazionali?
Se ammettessimo tale principio, ammetteremmo di fatto che millenni di pittura non ci hanno trasmesso altro che rapporti cromatici, indipendenti da un significato. Se tale ammissione ci sembra scandalosa per l’arte di Munch, non è comprensibile perché tale moto d’indignazione non sgorghi anche in difesa dell’arte di Daguerre.
Tutte quelle scelte, spesso definite operative, che il fotografo, prima dello scatto, compie, fra le migliaia di possibili soluzioni che gli si presentano, rendono di fatto l’immagine fotografica un prodotto tutt’altro che ingenuo e mimeticamente corretto. Lo stesso concetto di esposizione, dal latino ex porre, presuppone il concetto del taglio. L’atto generativo della fotografia, lo scatto, è molto più vicino al colpo di forbice del sarto che alla pennellata del pittore. E’ il momento del riconoscimento, michelangiolesco, della forma contenuta nella forma. E’ un’opera di maliziosa selezione atta a mostrare, sineddoticamente, una parte della realtà, facendola funzionare come se fosse l’universo intero.
Quanti fotografi hanno considerato le proprie immagini come la rappresentazione del mondo? E quanti critici hanno assunto l’opera di uno o più fotografi come specchio di una generazione? Ancora oggi, nonostante il disvelamento della falsa ingenuità del mezzo fotografico siamo inconsciamente condotti a credere che la nostra stampina, sia essa un dieciquindici o un settantacento sia una parte intera del tutto.
Può dunque la fotografia essere considerata un linguaggio? E come salvarla, eventualmente, dalla perdita dei rapporti di lettura estetica che nasce dalla possibilità della fruizione extracomunicazionale? Le scelte operative sono l’impalcatura grammaticale-sintattica del fotografo. Gli oggetti dalla rappresentazione sono le parole articolate secondo la coscienza e la sensibilità di chi gioca con esse. Il risultato finale, l’opera, mostra lo scatto (l’immagine dell’oggetto) e il controscatto (l’immagine del soggetto). Come sostiene Wim Wenders, mostra le cose e il desiderio di esse . Ma un singolo scatto può condensare una realtà complessa in sé, che si è arricchita e sovraccaricata del sentimento del suo artefice? In tal direzione ci vengono incontro i poeti ermetici, che con estremo rigore ci hanno mostrato la via che conduce all’unione del massimo di saturazione semantica e del minimo di espressione verbale. Esempio della secchezza lessicale che la fotografia, come la poesia, può raggiungere è sicuramente l’immagine del miliziano colpito a morte scattata da Robert Capa durante la guerra di Spagna. Che sia vera o sia stata messa in scena a noi interessa poco o nulla; ciò che ci colpisce è la capacità di sintesi dell’evento, che si cristallizza nell’atto estremo di una vita. Su un piano diverso si muove la rappresentazione filmica, che informativamente si presenta più ricca e completa, con la sequenzialità delle immagini legate da una solida struttura narrativa.
A questa narratività generata dalla sequenzialità delle immagini non rinuncia neanche la fotografia che, con il diaporama e il portfolio, si amplia, arricchendosi nella molteplicità. Consolidato a livello internazionale il diaporama non ha certo bisogno di presentazioni, mentre, vista la sua giovane età, soprattutto in ambito concorsuale, qualche sottolineatura identitaria è necessaria per il portfolio. Partendo dalla stessa definizione, infatti, corriamo spesso il rischio di imbatterci in significati differenti. La cifra comune a tutte le definizioni possibili è, comunque, il concetto di “raccolta”. Limitatamente al portfolio fotografico ciò che maggiormente ci attrae è la possibilità che abbiamo, attraverso di esso, di mostrare la nostra abilità in un particolare settore di ricerca e di approfondimento. A livello professionale per portfolio s’intende una raccolta di immagini che dia una visione generale e non sequenziale delle proprie capacità lavorative da mostrare ai potenziali clienti. A livello artistico per portfolio s’intende, invece, una raccolta di immagini, numericamente limitata, atta a mettere in successione una sequenza di immagini strettamente concatenate, ognuna densa di significato, il cui accostamento alla precedente ed alla successiva, determini un arricchimento in comunicazione e possibilità di narrazione di un fatto, di una sensazione o di un’idea creativa. Tale insieme si configura dunque come “un complesso coerente di immagini che funziona nel produrre nel lettore la consapevolezza di aver acquisito una conoscenza” . La possibilità di funzionare in una sequenza coerente è quella che arricchisce la comunicazione espressa dal linguaggio fotografia. Per decenni, infatti, siamo stati abituati a pensare, cartierbressonianamente, alla fotografia come la fissazione dell’ “istante decisivo”, dimenticandoci delle ulteriori possibilità narrative del mezzo. Un portfolio, quando si presenta come “un gruppo omogeneo di fotografie – preferibilmente riferite a un unico nucleo narrativo – finalizzato ad esprimere un significato preciso, una sola idea centrale” , consente al suo autore di elevare notevolmente il livello comunicazionale, permettendogli di mettere in mostra oltre alle sue pregevoli qualità di sintesi anche quelle di affabulazione. L’espressività, in un portfolio, differentemente dall’immagine singola, nasce dall’accostamento delle foto. E’ proprio l’accostamento che “finalizza, riassume e amplia in un’unica idea-significato la successione dei significati delle singole immagini” .
La realizzazione di un portfolio, dunque, dovrebbe rappresentare la naturale evoluzione del linguaggio dei fotografi, divenendo “indice” della loro maturità espressiva. La scelta accurata di un argomento, lo sviluppo della sequenza narrativa (sia essa a ciclo chiuso o a ciclo aperto), la possibilità di esprimere idee chiare (procedendo per analogia o per contrasto), sono ulteriori passaggi, che, uniti alle scelte operative connesse ad ogni singolo scatto, consentono all’autore di elevare il tenore della sua comunicazione, trasformando la fotografia in un complesso, articolato e fortemente significativo sistema di espressione.

3nzo Gabriele Leanza, Afi-Efiap
Docente DAC-FIAF